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Firmare in calce, prego

L’italiano è una lingua piena di sottili sfumature, viva, in costante aggiornamento, e tutti i suoi mutamenti e le sue evoluzioni sono lo specchio della società che li genera.
Gli italiani fanno del carpe diem la propria filosofia di vita, si evolvono insieme alla società, siamo un popolo in fieri, che si abitua ad usare le incomprensibili abbreviazioni degli sms e dei blog.
Adoriamo ad esempio utilizzare gli anglicismi per restare al passo con la tecnologia mentre gli inglesi adorano usare i termini neolatini, considerati più corretti ed adeguati. Ormai l’inglese è la lingua della tecnologia, dell’informatica, del futuro e ci piace adoperare sinonimi, acronimi e abbreviazioni per attenuare il tono di qualunque cosa venga detta nell’ottica del politically correct.
Questa propensione non è affatto nuova: quanti di voi, al momento di firmare un documento, si cono sentiti richiedere “una firma in calce” e hanno immediatamente pensato “cosa c’entra la calce con la mia firma?”

La frase ci giunge dal latino e deriva a sua volta dal greco. Calx-calcis, in latino, significava originariamente solo tallone, calcagno.
Ma i latini, esattamente come noi oggi, nel linguaggio sportivo erano inclini a utilizzare termini e vocaboli provenienti dall’estero, facendoli diventare poi parte integrante del loro vocabolario.
Calix è una parola greca che significa proprio calce, la calce utilizzata in edilizia.
In Grecia la calce veniva usata negli stadi per disegnare delle strisce, per delimitare e rendere visibili da lontano sia i percorsi sportivi sia i traguardi delle gare di corsa, grazie al color bianco acceso appunto della calce.
Per questo motivo la locuzione “in calce” prese poi genericamente il significato di “alla fine, al termine”.

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